Legendary Coach: Bianchi e Zaccheroni
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Legendary Coach: Bianchi e Zaccheroni

Dal Napoli dello Scudetto al Milan del 3-4-3, Ottavio Bianchi e Alberto Zaccheroni raccontano la loro idea di calcio, tra empatia e pragmatismo

Moderati da Giorgio Porrà, Ottavio Bianchi e Alberto Zaccheroni - due allenatori che hanno lasciato un’impronta indelebile nel calcio italiano - si sono confrontati su aneddoti, riflessioni e visioni sul loro mestiere. Tra ricordi epici e analisi, è emersa la profondità umana e tecnica di due figure che, seppur diverse nello stile, condividono la convinzione che il vero centro del calcio siano sempre i giocatori e la loro capacità di coesistere in uno spirito di squadra. Un incontro magnifico, rivivilo subito, clicca qui per guardare il video!

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Ottavio Bianchi: "Lavurà, lavurà e tàset"

L’approdo alla panchina
“Non volevo fare l’allenatore, non mi sentivo in grado. È successo per caso alla SPAL, negli ultimi mesi di carriera a Ferrara, l’allenatore fu esonerato e mi chiesero di fare il traghettatore. Poi ho capito che potevo farcela e ho cominciato la trafila a Coverciano”.

L’arte della squadra
“Una grande squadra è come una sinfonia: la base deve esaltare il solista. Il calcio è più semplice di quanto si pensi: tutto parte dalla quotidianità e dal talento dei giocatori”.

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Il Napoli e lo Scudetto
“Napoli ti entra dentro. Conoscevo le insidie della città, ne avevo fatto esperienza da calciatore. Per questo, da allenatore, dissi: ‘O vinciamo o moriamo’. Non bastavano i fuoriclasse, servivano anche ragazzi napoletani legati alla maglia: quelli ci hanno fatto vincere la Coppa Italia con 13 vittorie su 13”.

Su Maradona
“Diego era un ragazzo umile, mai una lamentela, sempre pronto ad aiutare i compagni. Ma troppo influenzabile: nessuno gli ha mai detto ‘no’. In trasferta era costretto a restare chiuso in albergo, prigioniero del suo mito.”

Declino del calcio italiano
“Il problema è strutturale: siamo diventati un Paese importatore di talenti. I veri responsabili della crescita non sono gli allenatori di prima squadra, ma gli istruttori del settore giovanile.”

Alberto Zaccheroni

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La squadra prima del modulo
“Non ho mai avuto un mio calcio. C’era il calcio dei miei giocatori. Il compito di un allenatore è tirar fuori il meglio dalla rosa a disposizione, adattandosi, non imporre un’idea. L’empatia in una squadra è tutto: crea fiducia e spirito collaborativo. Non si può giudicare un gruppo da fuori, bisogna viverne l’aria”.

Il Milan e lo Scudetto
“L’unica esperienza iniziata da zero è stata quella con il Milan. Ma si partì male: ero etichettato come ‘comunista’ mentre Berlusconi era al governo. Le frizioni furono inevitabili. Ma vincemmo. Con Galliani non ho mai parlato di calcio, si parlava solo dei comportamenti dei calciatori. Non facevo mercato ma davo qualche parere. Per esempio su Shevchenko: andai a Londra per vederlo in semifinale di Champions. Nel report scrissi: ‘PRENDERLO SUBITO’, in maiuscolo e sottolineato cinque volte. Con Sheva e Stankovic avevo un rapporto da padre, mi chiamavano ‘papà’”.

I leader in spogliatoio
“Weah era goliardico, positivo, ma non interveniva mai nelle dinamiche del gruppo. Maldini invece sì: un vero leader, sapeva quando e come parlare. L’arrivo di Bierhoff mise in crisi alcuni equilibri in attacco.”

Un calcio non mediatico
“Non davo mai la formazione in anticipo ai giornalisti. Il mio obiettivo era sempre lo stesso: far crescere i miei giocatori, alzare il livello della squadra. I riflettori non mi interessavano.”

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